Preferirei muovermi per raccontare l’Africa e l’incontro con i ragazzi. Questo popolo africano sempre in cammino, alberi sradicati che incedono eleganti, dritti e fieri, tutti d’un pezzo, sa che deve muoversi e che ha solo le gambe per spostarsi; forse non raggiungerà mai l’obiettivo, ma questo fa parte del caso africano: è più importante il viaggio, la strada, gli incontri, che il semplice arrivo.
Anche l’esperienza che ho vissuto è come questo cammino, non ha forma logica, lineare, conosciuta, perché in Africa nulla è così, niente è come te lo aspetti.
Il mio incontro con i ragazzi è stato così, un guardarsi negli occhi e non sapere bene che fare, né da una parte né dall’altra. Per fortuna il corpo percepisce in altri modi, attraverso la pancia, i sensi, l’istinto e il codice tra me e loro si è costruito adagio. Ho insegnato danze che pensavo non conoscere, e poi è accaduto il miracolo, i primi sorrisi, movimenti che nascevano rielaborati da loro, il divertimento dello stare dentro al gioco teatrale. E anch’io sono cambiata con loro e ho trasformato meccanismi consueti in ingranaggi nuovi.
Sukuma in swahili significa spingere, spesso negli esercizi, per abituarli a non guardare in basso, gli dicevo “sukuma look”, spingere lo sguardo. Ora che lo sanno fare benissimo, insegnare ad altri gruppi come guardare davanti a sé non sarà più la stessa cosa e io conserverò nel mio cuore venti paia di occhi che spingeranno con me tutta la vita.