UN’ANTIGONE PER VELEIA

Marco Baliani primo maestro della Bottega XNL di Piacenza: 21 gli allievi selezionati per un percorso di alta formazione che culminerà con la messa in scena di Antigone al Festival di Teatro Antico di Veleia

Dal 19 luglio al 21 luglio 2022 il Festival di Teatro Antico di Veleia ospiterà in prima nazionale l’Antigone di Sofocle diretta da Marco Baliani a cui partecipano i 21 allievi del percorso di Alta Formazione Fare Teatro, selezionati tra le oltre 300 candidature arrivate. Il corso intensivo è iniziato lo scorso 30 maggio a Palazzo XNL di Piacenza e si chiuderà nell’area archeologica di Veleia romana, per la fase finale del percorso e per il debutto.

Il progetto Fare Teatro, affidato per questa prima edizione a Marco Baliani, è promosso da Bottega XNL di Piacenza, con la direzione artistica di Paola Pedrazzini, in una ampia progettualità di formazione che include lo storico corso Fare Cinema realizzato con Marco Bellocchio a Bobbio.

QUALCHE APPUNTO DI PARTENZA di Marco Baliani

Un corso di formazione teatrale esercita la sua valenza se è capace di trasmettere saperi ed esperienze, di fare tesoro – da parte dei partecipanti – delle modalità con cui metterò in campo i miei esercizi, le mie visioni, la poetica, le cose apprese in anni e anni di lavoro. Ma deve essere anche il luogo in cui maieuticamente accade il contrario: c’è un sapere che proviene anche dall’attore che partecipa al processo formativo. Basta esser capaci di stare reciprocamente in ascolto. Il corso-laboratorio che si è aperto qui a Piacenza è un luogo di scambio e di scoperte. Solo così ha senso mettere al centro del percorso le figure mitiche di Antigone, Creonte, Ismene, Tiresia e tutti gli altri. L’Antigone di Sofocle diventa mappa di parole, gesti, azioni, idee, suggestioni, fino a trovare nel testo e nella storia quei sensi nascosti che ancora riverberano in noi, nel presente. E mostrarli poi come esito della ricerca compiuta. È un compito difficile, richiede agli attori partecipanti un impegno che va molto oltre la pur necessaria capacità interpretativa. Chiede agli attori di essere artisti a tutto campo, capaci di autorialità nelle scelte e nelle proposte, intessendo con me un dialogo costante ma anche contraddittorio, vivo, creativo.


ANTIGONE

da Sofocle

regia e adattamento drammaturgico Marco Baliani

con Massimo Foschi e Petra Valentini

e gli allievi del corso Fare Teatro: Alessandro Apostoli, Francesca Barbieri, Silvia Bertocchi, Elia Bonzani, Lorenzo Carpinelli, Raffaele De Vincenzi, Carlo Fabbri, Marcella Faraci, Giorgia Favoti, Ludovica Ferraro, Dania Grechi, Cristina Maffia, Francesca Muscatello, Marica Nicolai, Michele Nisi, Marta Ossoli, Matteo Sangalli, Leonardo Tanoni, Davide Tortorelli, Massimo Vazzana, Giulia Visaggi

costumi e oggetti di scena Emanuela Dall’Aglio

paesaggio sonoro Mirto Baliani

 prima nazionale, 19 – 20 – 21 luglio 2022, Festival di Teatro Antico di Veleia

“L’armata degli Argivi, sconfitta, è ripartita stanotte”: questo annuncia Ismene alla sorella Antigone. La città di Tebe si è da poco risvegliata dall’incubo dell’assedio e della guerra, il nemico sconfitto ha abbandonato la pianura. È a questo punto del giorno, trascorsa appena una notte, che comincia l’Antigone di Sofocle. Nel metterla in scena si è soliti dedicarsi interamente al senso delle parole pronunciate dai protagonisti e dal coro, parole alte, parole di poesia. Così agendo il logos diviene padrone della scena, cercando la chiave di lettura giusta che possa esaltare la forza e la pregnanza di quelle parole. Il testo diventa un lavoro di interpretazione registica, si cercano scenografie  che illuminino le sostanze espresse in parole, e agli attori viene chiesta l’interpretazione adeguata a quel disegno registico. 

Il mio approccio è diverso, per certi versi è agli antipodi. Parto dai corpi, non dalle parole, quelle arriveranno dopo, parto dalla materialità concreta di quei corpi tebani, appena scampati al massacro. La guerra è da poco trascorsa, cosa resta nei corpi dei cittadini dopo che il pericolo è passato? Difficile indicare un solo sentire, le guerre portano a comportamenti privi di qualsiasi senso di umanità, oppure a improvvisi slanci di solidarietà, a gesti eroici o disperati, tutto si mescola negli animi, i corpi sono scossi turbati, le voci che escono dalle gole risentono ancora dell’urlo, del richiamo esasperato, della foga nell’uccidere, del terrore di essere stuprate. La mia ricerca con gli attori sarà quella di trovare quelle voci che escono da quei corpi tormentati. Sono quelle voci che dovranno pronunciare le parole della tragedia.

La tragedia è dunque il tentativo disperato di rimediare al caos della vita attraverso parole, di permettere agli animi di distanziarsi dalla terribilità dell’esperienza di guerra, cercando un senso alla desolazione, senza rifuggire in altre contrade ma affrontando di petto i conflitti che la guerra ha innescato. Ogni guerra ha bisogno di parole che cerchino disperatamente un senso all’assurdità di tanto scempio perpetrato, di tanto odio e  delitto. Ma il tentativo della parola è sempre disperato, non riesce mai contenere o dirimere quei conflitti, e in questa impossibilità sta per me il meraviglioso del senso tragico.


IL CORPO MALATO DI TEBE

C’è un corpo che puzza e imputridisce e il suo fetore aleggia come un incubo sulla piana di Tebe. La città è appena scampata all’assedio nemico, intorno alle mura ci sono centinaia di corpi dei nemici uccisi e dei tebani morti nello scontro. Tebe è un carnaio a cielo aperto, come sempre accade in tutte le guerre, come sta accadendo oggi sotto i cieli europei.
I tebani scampati alla guerra, che tornano a respirare la libertà, sono ancora intrisi di sangue, smaniosi di vendetta, oscurati dalla somma di paure e angosce che hanno patito durante i giorni dell’assedio.

È una città ferita che fatica a riprendere vita, a compattarsi di nuovo in un unico sentire.
Il corpo esposto ai cani e agli uccelli è quello di Polinice, tebano anche lui come il fratello Eteocle: è il corpo del traditore che si è alleato con eserciti stranieri, gli Argivi, per riprendere il potere che gli spettava di diritto e che Eteocle gli aveva rifiutato. Ma quando una guerra comincia ci si dimentica subito delle cause che l’hanno generata, si pensa solo a sopravvivere e a uccidere.

Creonte, il nuovo sovrano di Tebe, sta usando quel corpo fraterno come capro espiatorio, è convinto che in questo modo i tebani tutti possano sfogare le loro tensioni infierendo sul quel corpo, sviando così le pulsioni distruttive dal suo nuovo governo. Spera che il marciume di un corpo che imputridisce assuma e annulli su di sé i conflitti, le paure, le rivendicazioni, che paradossalmente ripulisca la città dai miasmi della guerra appena trascorsa. È una mossa politica a suo modo astuta, e la retorica del suo discorso alla città tiene conto dei dissidi latenti, sa di governare sul filo del rasoio. Gli echi della guerra ancora rimbombano nelle orecchie e nei cuori dei cittadini e deve dimostrare di essere più saldo di quanto in realtà non sia. Quel corpo lasciato insepolto è un’ottima occasione per ricompattare il popolo.
Ma non ha messo in conto tre elementi.
Le donne di Tebe vogliono ricominciare a vivere, subito, chiedono a gran voce l’oblio, dimenticare rancori e vendette, occuparsi del presente, dei figli, della quotidiana ripresa del vivere, a differenza dei maschi ancora assetati di sangue.
Poi c’è Antigone, che rivendica il diritto di seppellire il fratello, anche se è stato nemico della città. Antigone chiede che venga rispettato il suo corpo, e che le leggi dell’affettività famigliare vengano prima delle leggi ordinate dalla città e dal suo sovrano. Questo scontro è, solitamente, nelle messe in scena della tragedia, il centro dell’opera. Ma lo è solo in parte, è un motore potente di conflitto insanabile ma solo perché dentro l’animo di Antigone alberga un altro conflitto ancor più devastante.
È il terzo elemento che segnerà la sconfitta di Creonte e il crollo del potere e del tentativo di dare un ordine alla nuova città dopo l’assedio. È la vera tragedia che Antigone si porta dentro. La contaminazione di un letto incestuoso, dove il padre-fratello Edipo ha generato con la moglie- madre Giocasta, i figli disgraziati. Antigone soffre la sventura della stirpe, la soffre come marchio di ignominia e per questo, da tempo, non vuole più vivere. Il seppellimento del fratello contro il volere di Creonte è per lei un’occasione di riscatto, un modo estremo per cancellare la sua origine malata. Onorando il fratello crede e spera di onorare sé stessa e la sua discendenza. Contro questo impulso di morte che fin dall’inizio Antigone rivela con forza alla sorella Ismene, Creonte nulla può, è per forza sconfitto.
 
Sono questi tre elementi che metterò in scena nell’Antigone da domani a Veleia, in mezzo alle antiche rovine di un insediamento romano. Tre condizioni dell’essere umano che devono incarnarsi nei corpi degli attori, non c’è un coro compatto che declama versi all’unisono, ci sono individualità multiformi, percosse ciascuna dall’ineluttabile che si sta svolgendo davanti ai loro sensi. Sono corpi scampati al massacro, ancora tremanti, ancora dilaniati da quello che la guerra ha impresso nella loro carne.

Solo la musica può, per intense dilatazioni, distaccare la percezione della tragedia dalla sua fatalità, la musica può sfilacciare ciò che appare compatto, e contratto, può perfino assolvere e redimere ciò che non ha possibilità di redenzione. Corpi e musica sono le materie di questa inusuale messa in scena, la tragedia è prima di tutto tragedia di corpi e di umanità.
Marco Baliani