IL DELITTO MORO: UNA GENERAZIONE DIVISA
di e con Marco Baliani
drammaturgia e regia Maria Maglietta
collaborazione drammaturgica Alessandra Rossi Ghiglione
montaggio video Michele Buri
ricerca iconografica Eugenio Barbera
produttore esecutivo Maurizio Agostinetto
direzione tecnica Massimo Colaianni
una produzione Casa degli Alfieri, Trickster Teatro
trasmesso per la prima volta in diretta su Rai2 il 9 maggio 1998 dai Fori Imperiali di Roma, in occasione del ventennale dalla morte di Aldo Moro
Quanto a lui, bisognava che l’ascoltassero perché credesse alla propria vita. Albert Camus
Chi ha visto e ascoltato un’altra mia narrazione, il Kohlhaas tratto da Kleist, potrà meglio comprendere le ragioni di questo Corpo di Stato e il filo che li lega, poiché il tessuto è lo stesso: il rapporto conflittuale tra esigenza di rivolta contro l’ingiustizia e assunzione del ruolo di giustiziere.
Ma questa volta non siamo nella Germani del 1500, ma nel nostro passato prossimo, solo vent’anni fa. È sempre difficile raccontare qualcosa che ci è tanto vicino, specie se quel qualcosa ha inciso profondamente sulle nostre esistenze e sulle nostre scelte.
La materia è ancora così pulsante e non dipanata dalla lontananza, che si rischia allora di leggerla col senno di poi, filtrandola e mettendola a distanza di sicurezza.
Ho cercato allora di ritornare laggiù, in prima persona, ricordandomi di me in quei giorni, trovando nelle mie esperienze di allora quelle “piccole storie” che sole possono tentare di illuminare la Storia più grande. Ho ripercorso momenti dolorosi senza perdere però le atmosfere di quegli anni, gli entusiasmi, i paesaggi metropolitani, le contraddizioni.
Nei 55 giorni della prigionia di Moro ho raccontato di una lacerazione, di come il tema della violenza rivoluzionaria abbia dovuto fare i conti con un corpo prigioniero, e come questa immagine sia divenuta via via spartiacque per scelte fino ad allora rimandate, abbia fatto nascere domande e conflitti interiori non più risolvibili con slogan o con pratiche ideologiche.
Ho raccontato le mie storie, prima ancora che su un palco teatrale, davanti a una telecamera; l’emozione della diretta televisiva è cosa diversa dall’eccitazione inquieta con cui ogni volta entro in scena a narrare.
Ora torno sulle tavole di legno a me care, non devo più cercare l’occhio di una telecamera, ma gli occhi di spettatori in carne e ossa; non sarò né personaggio né narratore esterno, questa volta, ma io stesso narrante, un’esperienza nuova, una messa in gioco del personale, una dichiarata visione soggettiva di quegli anni.
Amici, compagni, avversari, potranno avere i giusti motivi per non essere d’accordo o per trovare identità, per quelli che non c’erano, i giovani d’oggi, sarà come visitare un mondo che appare tanto lontano, quasi incredibile; spero che per tutti, come è già accaduto dopo la trasmissione televisiva, scatterà il desiderio di parlare, di contraddire con altri racconti: è un modo di uscire allo scoperto, di raccontarsi agli altri, di rievocare quei tempi difficili e densi.
Quando si esce da momenti e tempi in cui la vita è stata pregna di avvenimenti, quando il vivere è sembrato intenso anche nel dramma, dopo, col tempo, ci si sente sempre un po’ stranieri, come reduci, testimoni di eventi troppo densi per essere dipanati. Camus dice “Non essere ascoltati: è questo il terribile quando si è vecchi”. Il narratore compie sempre questa sfida, straniero nel tempo cerca di vincere con il racconto la vecchiezza che stende sulle cose del mondo un manto spesso di oblio.
20 ANNI DOPO: IL SENSO DI UNA RIPRESA
maggio 2018
In una recente intervista il figlio di Aldo Moro, Giovanni, insisteva a parlare del padre come di un fantasma senza requie e riposo, a cui è stata negata la verità della sua morte. Sono trascorsi quaranta anni da quella morte.
Venti anni fa avevo cercato di parlarne attraverso uno spettacolo unico nel suo genere, Corpo di stato, in cui ero in scena in prima persona, raccontando con la massima sincerità possibile, cosa erano stati per me e per quelli intorno a me i cinquantacinque giorni di prigionia di Moro, a Roma.
Ho deciso di riproporre lo spettacolo in questa occasione speciale, anche se mi costa molto rinnovare la memoria di quei giorni, degli amici e compagni che non ci sono più, di quello che non capimmo allora, di quello che avremmo potuto fare e non abbiamo fatto.
È uno spettacolo necessario credo per chi lo ascolta, ma doloroso per me che rivivo quegli anni, con la spietata forza che ha il teatro di costringere il passato a rinnovarsi.
Riporto in scena “Corpo di stato” perché i fantasmi devono poter avere pace. Non possono essere semplicemente dimenticati. Finché non si scoprirà chi ha ucciso il re Laio, la città di Tebe resterà appestata. Una peste morale, più terribile di quella fisica. Insieme ad Aldo Moro molti sono i fantasmi a cui questo paese non è riuscito a dare vera sepoltura, dai morti della banca dell’Agricoltura, a quelli della stazione di Bologna, a quelli di Ustica e molti altri ancora.
Per questo siamo ancora un paese appestato. E per questo occorre continuare a dare voce e respiro al nostro passato prossimo. Con sofferenza, ma non posso che tornare a parlarne.
Marco Baliani
NOTE DI REGIA
Lavoro da 25 anni con Marco Baliani, a volte come drammaturga, a volte come attrice, in questo caso come regista.
Nella nostra idea di teatro c’è una stretta relazione tra i vari elementi che compongono e determinano la creazione teatrale.
Si delinea un’ipotesi drammaturgica, spesso preceduta da una ricerca letteraria, tematica; in forma di canvaccio, di domande che il regista pone, di improvvisazioni, questo materiale viene passato all’attore, lievita, ritorna, nello scambio continuo sviluppa strade possibili. Comincia così a disegnarsi una possibile “mappa”, così la chiama Marco, fatta di crocicchi, luoghi da visitare, territori ancora da esplorare e soprattutto strade diverse tutte possibili per raggiungere luoghi individuati.
Lo spettacolo che ne scaturisce è una delle possibili strade individuate per percorrere luoghi tematici che si vogliono visitare.
Nel caso di Corpo di Stato, questo lavoro già complesso è stato caratterizzato da una particolarità: stavamo creando uno spettacolo teatrale, che però avrebbe visto il suo debutto in una diretta televisiva. Rai Due l’avrebbe mandato in onda dai Fori Imperiali di Roma la sera del 9 maggio 1998.
Definire teatralmente il racconto per poi immediatamente tradurlo, perché potesse avere un’efficacia attraverso un altro “mezzo”, tenendo conto dei tempi, dei ritmi, della sintesi, nonché dei vincoli tecnici imprescindibili in una comunicazione televisiva.
Quando in autunno, dopo il successo televisivo, abbiamo ripreso il lavoro per portarlo finalmente in teatro, la prima sensazione è stata quella di sentirmi padrona del tempo. Mi sono sentita accolta dal respiro più ampio che ha il tempo in teatro, e nella struttura già configurata si sono aperti spazi di approfondimento, il disegno drammaturgico si è ridefinito. Questione di secondi, a volte, o di minuti, indugiare su una domanda di non facile risposta, il poter ritornare su certi concetti condividendo con lo spettatore quel tempo.
È andata via una parte di testo, che se necessario pensando al grande pubblico della diretta, non lo è più in teatro, dove fra il narratore e il pubblico c’è una maggiore affinità, una relazione più “intima” e condivisa.
Dal lavoro televisivo sono rimaste delle indicazioni preziose. Nella trasmissione c’erano degli stacchi di quindici secondi, un montaggio di immagini di quegli anni su un sonoro tratto da telegiornali, comunicati radio di quei giorni, frammenti di musica di quegli anni. Immagini non didascaliche che avevano più che altro la funzione di attivare una “memoria emotiva” in chi allora non c’era.
Nello spettacolo teatrale le immagini sono rimaste, come un contrappunto visivo e sonoro alla parola del narratore, si è modificata la loro durata, la dimensione, il ritmo.
Il grande schermo di fondo è anche un po’ “la grande Storia” da cui il narratore entra ed esce.
Dirigere un narratore in un racconto è cosa diversa che dirigere un attore in un monologo.
Un vero narratore, quando è tale, ha un modo d’essere sulla scena che appare del tutto organico, come se tempi, ritmi e gesti appartenessero a un “sapere” dove le tecniche affabulatorie sono state interiorizzate a punto di divenire “naturale” veicolo di quell’espressione.
Allora la funzione del regista in quella parte che riguarda la direzione dell’attore, è qualcosa che assomiglia a far volare un aquilone: bisogna corrergli dietro, stare insieme a lui col vento per farlo volare più alto, tenere un filo sottile che possa richiamarlo a terra se necessario, per evitare che si impigli o si perda.
Maria Maglietta