SCRITTURE – Marco Baliani https://www.marcobaliani.it Tue, 23 Mar 2021 09:28:56 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.3.5 COME RACCONTEREMO LA PANDEMIA TRA ANNI https://www.marcobaliani.it/come-racconteremo-la-pandemia-tra-anni/ https://www.marcobaliani.it/come-racconteremo-la-pandemia-tra-anni/#respond Tue, 23 Mar 2021 08:36:59 +0000 http://www.marcobaliani.it/?p=3348 UN BREVE RACCONTO DI MARCO BALIANI

Voglio cominciare dal respiro. Improvvisamente, un certo giorno, respirare era diventato pericoloso. Fino a quel momento ognuno poteva respirare come voleva. Da quel giorno in poi, tossire, starnutire o respirare diventò pericoloso, perché attraverso il respiro si poteva veicolare, far girare delle particelle invisibili che entravano dentro il naso e poi dentro i polmoni e ti facevano ammalare. Questa era una cosa nuovissima. Non era mai esistita o forse era esistita tanti tanti anni prima e nessuno se ne ricordava più. C’erano state altre malattie di questo tipo, ma questa volta cominciarono a dire che per essere più sicuri di questo respiro, bisognava mettersi delle maschere, delle mascherine, delle cose sulla bocca e sul naso per impedire di infettare gli altri. Questa cosa fu molto strana, all’inizio in molti non ci credevano, non tutti si misero a usarla. Dissero anche di usare i guanti, di lavare molte volte le mani e dissero tante cose per far capire che il pericolo c’era, anche se all’inizio non si riusciva bene a capire quanto fosse grave questo pericolo. Ci volle un po’ di tempo e poi si cominciò a capire che i più colpiti erano gli anziani, le persone più vecchie, perché avevano quello che chiamavano un sistema immunitario più debole. Questo sistema immunitario non si capiva bene che cos’era. È una cosa che abbiamo dentro e che si dovrebbe rinforzare vivendo bene sostanzialmente, mangiando bene, respirando bene, stando bene spiritualmente, in amicizia con gli altri. La mascherina l’avevamo già vista, c’erano delle immagini di documentari in Cina dove pare che questo virus avesse cominciato a girare, ma c’era l’idea che questo virus fosse così lontano, in Cina, figurati quando sarebbe arrivato da noi. Invece quando arrivò fu una catastrofe!

A Pechino avevamo già visto gente che girava con le mascherine, in realtà se guardiamo i bollettini meteorologici delle nostre città dovremmo girare sempre con le mascherine. Oramai sono molto inquinate, si respirano sempre polveri molto sottili, che non si vedono e le respiri, ma non muori subito, ci vuole tempo per immagazzinare questo veleno. Invece questa cosa nuova si chiamava “coronavirus”… con questa parola “corona” legata ai principi e ai re alle regine, alle principesse delle favole. Questo coronavirus era una cosa molto presente, concreta, ne moriva la gente. Alcuni morivano e altri no e questo era incredibile. C’erano persone che neanche sapevano di averla quella malattia e quindi erano più pericolose perché giravano e infettavano le altre. Siamo cominciati a entrare dentro una faccenda  di numeri,  ogni giorno stavamo a guardare quanti ne morivano e quanti erano infettati, quanti erano quelli che non lo erano più. E cominciavano a diventare degli eroi persone che fino a quel momento non lo erano mai stati: i medici e gli infermieri.

Avevamo visto un sacco di serie televisive negli anni Ottanta e Novanta sui medici, storie di medici in corsia, ma non eravamo stati preparati a vedere questi medici come fossero in trincea, come se fossimo in guerra. E infatti molti di loro purtroppo ci hanno lasciato la vita per difenderci, perché lì negli ospedali cominciò ad accumularsi tutta questa malattia in eccesso. Entravano lettighe e lettighe e autoambulanze. Entravano autoambulanze e uscivano casse da morto purtroppo perché è una malattia veramente brutta in cui si muore respirando male, non riuscendo a respirare muori dentro un casco di plastica che hai addosso e muori da solo, non puoi più contattare nessuno, sei infettivo, è una malattia che ti isola dagli altri. Questo succedeva anche nella gente perché regnava la paura di incontrare gli altri, per non essere infettati; ci dissero che era meglio stare in casa.

Infatti cominciarono a chiudere tutte le attività dove le persone si riunivano di più, le fabbriche, i posti di riunione, tutto… questo si chiamò ‘lockdown’ e fu lungo lungo e terribile perché le persone stando in casa cominciavano a restringere tutto il loro modo di vivere, anche gli spazi, non tutte le case sono grandi, ci sono case di quaranta metri quadri, con due genitori e quattro figli, come hanno fatto? Eppure ce la facevano e poi uscivano sul balcone e gridavano “tutto tornerà come prima, ce la faremo”. C’era una grande speranza di farcela, questa speranza poi ha cominciato ad affievolirsi e in televisione gli epidemiologici, i virologi, tutte persone mai state fino ad allora in televisione, divennero delle star. Ogni trasmissione ne aveva uno. Spesso raccontavano cose che non erano in sintonia con quello che raccontavano gli altri, erano scienziati, persone cui dare fede, fiducia. Ma ad esempio ce ne fu uno, un idiota, che disse a un certo punto che l’epidemia non c’era più, che il virus non c’era più. Questo generava confusione nelle persone. Quando le persone hanno paura succede che cominciano a pensare al maleficio, devono trovare un nemico da qualche parte, un capro espiatorio. Siccome il nemico non si può trovare qui perché è invisibile e non è chiaro chi lo porta, non ci sono dei portatori, non ci sono persone particolari per il colore della pelle o per una particolare etnia che ci portano il virus, ce lo siamo portati da soli, è nelle nostre città. Questa cosa iniziò a generare superstizioni, si sono cominciate a formare gruppi di persone che di fronte alla paura del virus, negavano che il virus ci fosse. Quindi la gente ha iniziato a distinguersi in negazionisti, la gente che negava il virus, positivi, quelli che avevano contratto il virus, asintomatici… nuovi nomi per definire gruppi di persone.

E quando questa epidemia ha iniziato a diffondersi tanto durante il lockdown, una prima cosa che le autorità hanno fatto giustamente è stata quella di fare rimanere aperte solo le attività essenziali. E quali erano? Le attività essenziali erano quelle che riguardano la salute del corpo, la sanità e il mangiare. Tutto il resto non c’era più. Una grande scoperta di questo periodo è stata che la maggior parte delle attività della nostra società sono inessenziali. L’80% delle cose che venivano prodotte e consumate non servivano in realtà perché quelle che servivano per vivere erano poche. Ma in molte città del Nord si mandarono avanti le fabbriche perché i proprietari non potevano permettersi di perdere i profitti che avrebbero accumulati nella vendita dei prodotti e quindi silenziosamente, senza dirlo, molte fabbriche sono andate avanti e non hanno chiuso. Ma non è andata bene perché molti operai che si muovevano da casa alle fabbriche erano a loro volta portatori di malattia, di infezione. E poi… ecco una cosa criticabile delle autorità: mentre dicevano quali erano le attività essenziali, hanno scelto che l’essenzialità avesse a che fare con il corpo e non con lo spirito. È strano questo perché quando uno sta male in realtà vorrebbe avere qualcuno che gli racconta come stare meglio perché i racconti di solito sono la televisione, il cinema, il teatro, la musica, i musei, la danza… hanno chiuso tutto! non hanno pensato che c’era anche la possibilità di nutrirsi in questo modo e questo ha generato più paura!

L’arte serve a rendere il mondo meno terribile, questa la sua funzione, quando togli la possibilità di  usare arte, di prendere e nutrirti di arte… via via lo spirito si indebolisce. Per farla breve, la pandemia arrivò a un punto che finita la prima ondata sembrava che tutto si risolvesse e inevce arrivò la seconda ondata e forse adesso anche la terza.  Poi dicono che il virus non è uno solo, ce ne sono tanti, mutano, come tutti i virus. Il virus è come tutti gli esseri viventi, deve sopravvivere e si muove come può. E siccome questa nostra è una società in movimento, i cieli erano solcati da centinaia di aerei, migliaia di aerei diretti in ogni parte del mondo. Era facilissimo per il virus entrare nel corpo di un cinese che veniva a Roma, senza farlo apposta, senza essere cattivo, magari tossendo lo passava a un altro e a un altro che prendeva un altro aereo e lo portava in un altro posto. Era facilissimo per il virus espandersi, non gli pareva vero dal suo punto di vista di avere tanta carne a disposizione in così gran numero. Questo virus è un po’ figlio di questa società, non è una cosa che nasce per caso, nasce perché la nostra società è così, piena di trasformismo, di movimento, di commerci, di merci che devono essere trasportate, vendute, commerciate. Quello che ancora è difficile immaginare è che cosa accadrà quando questa pandemia sarà terminata, io non so raccontare bene cosa succederà, ma facciamo finta che sia finita davvero, cosa cambierà di quello che conosciamo? I centri commerciali ci saranno ancora? La gente andrà ancora di corsa per consumare l’ultimo prodotto pubblicizzato di telefonino, l’ultimo di quello, l’ultimo di quell’altro… l’ultimo è sempre il più nuovo. Forse compreremo ancora di più… il calcio, torneremo a vedere le partite? Perché anche le partite la gente non poteva più andarle a vedere, giocavano da soli i calciatori e giocavano sapendo che erano visti in televisione.

In fondo, l’unica cosa che era rimasta in piedi era la televisione e c’era già prima. È una scatola che mette lì dentro quello che nella vita si svolge fuori. Tutta la nostra vita, ancora più di prima, era dentro uno schermo, quello grande della televisione e quello piccolo dei telefonini…

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Con gli occhi di Andrej Rublev https://www.marcobaliani.it/con-gli-occhi-di-andrej-rublev/ https://www.marcobaliani.it/con-gli-occhi-di-andrej-rublev/#respond Tue, 23 Mar 2021 06:55:42 +0000 http://www.marcobaliani.it/?p=3343

Andy Warhol, Dollar Sign, 1981

Nulla più che la pubblicità permette di capire in che società viviamo.

La pubblicità è uno specchio spietato del modo di vivere, con la pretesa di indirizzarlo in certe direzioni, saggiandone le consistenze, per poi subito abbandonarle quando si scoprono improduttive.

Alla base ci sono due concezioni indissolubili. Uno: lo spettatore è un cliente consumatore e non un cittadino. Due: il Mercato ne è la religione, con i suoi riti, le sue formule magiche (gli indici di borsa ad esempio), i suoi comandamenti, che però non si fissano immutabili nel tempo ma cambiano velocemente a seconda del vento che tira.

Mai come in questi tempi di pandemia si è sentita pronunciare ad ogni piè sospinto pubblicitario la parola sostenibilità, parola feticcio, un mantra che non si sa cosa contenga ma che promette una parvenza di futuro, che vorrebbe infondere sicurezza, molto gettonato infatti anche nelle forme pubblicitarie della politica.

La sostenibilità ha superato in presenza perfino i gettonatissimi attributi bio, naturale, ecologico.

La pandemia ha generato una sorta di sovranismo provinciale, un restringersi e contarsi e contrarsi nel proprio orticello, mai tanta Italia e italiano hanno accompagnato merci e prodotti, come marchio di garanzia, di contrada, di paese, di comune e di regione, con i governatori o i sindaci che sempre più assomigliano a dei piccoli potentati, antagonisti gli uni agli altri, rispolverando antiche mai sopite tradizioni campanilistiche di un paese mai divenuto davvero nazione.

Come ai tempi delle invasioni barbariche, ci si rinserra nel contado, ci si isola dal mondo, affidandosi interamente al Principe di turno che saprà alzare i cancelli dei ponti levatoi prima che il nemico entri tra le mura.

Non sono tempi per offrire ponti (quelli che ci sono crollano per incuria) ma per innalzare muri (chiudendo confini, vietando vaccini a paesi stranieri, requisendo scorte).

I telegiornali ormai sono un inno alla siringa, mai visti tanti aghi iniettati in spalle o braccia, ossessivamente, anch’esse forme pubblicitarie che spingono al consumo dei vaccini, a fomentare scampoli di fiducia in un popolo stressato.

Vorrei in particolare soffermarmi su una pubblicità che mostra un bambino che si costruisce una casetta assemblando pezzi diversi di cartone, la colora e poi la trascina con una corda per mostrarla ai genitori.

La madre lo prende in braccio e stupita di fonte alla creazione del suo piccolo dice: “che bella, chissà quanto vale?”. Subito dopo arriva la voce suadente (sono sempre voci calde e vagamente erotizzanti sia che vendano auto sia che promuovono cioccolata, coi profumi poi siamo all’orgasmo) che induce la coppia di genitori a sfogliare le promozioni di una immobiliare che al volo dice quanto vale ogni singola casa del pianeta Italia. La battuta della madre è semplicemente mostruosa, però perfettamente in sintonia con la galoppante mercificazione di ogni atto, di ogni gesto del vivere sociale. La casetta del piccolo costruttore è un’opera d’ingegno, artigianalmente faticata e sofferta, che ha richiesto del tempo per essere realizzata.

La mamma insegna al bambino che ogni gesto culturale, da quel suo gioco infantile fino ad un’opera d’arte, ha senso solo se ha un valore economico, lo sta educando al suo prossimo futuro.

In ogni città esistono caveau dove sono segregate, sotto custodia e sorveglianza, opere d’arte che nessuno vedrà mai, esse non sono più un valore d’uso per la comunità, ma un bene rifugio per i loro proprietari, come fossero lingotti d’oro nelle cassette di sicurezza di una banca. In effetti sono la stessa cosa, sono scambiabili.

Il beneavere del portafoglio impedisce il vero dispiegarsi del benessere, che non si manifesta immergendosi in qualche bagno termale da cartolina illustrata, o richiudendosi in qualche crociera mediterranea, ma nello “stare bene” con sé stessi, dentro il mondo, in mezzo agli altri e con gli altri.

Questa pandemia ha accentuato, ancor più nei bambini e negli adolescenti, una percezione del mondo già confezionata, una direzione dello sguardo e del sentire che non ha più a che fare con la realtà delle cose che ci circondano, massimamente poi di quelle che hanno a che fare col mondo vegetale e animale, ma che si riferisce solo a ciò che può entrare in uno schermo.

Avremmo un disperato bisogno di altri occhi e di altri sensi, poter avere gli occhi di Andrey Rublev, il monaco pittore di icone, che, a sera, aveva gli occhi stanchi, sfiniti dal tanto contemplare la “straziante bellezza del creato” in ogni sua più minuta manifestazione di esistenza.

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Cultura in scatola https://www.marcobaliani.it/cultura-in-scatola/ https://www.marcobaliani.it/cultura-in-scatola/#respond Tue, 02 Mar 2021 09:05:52 +0000 http://www.marcobaliani.it/educazione-alla-percezione-2/

La cultura non può essere inscatolata.
E invece ogni giorno questa parola viene etichettata, definita, recintata, come se fosse una merce su uno degli infiniti scaffali del consumismo dove ogni cosa per esistere ha un prezzo.
Così la parola cultura viene declinata a seconda del comparto dove è stata ristretta e circoscritta. Cultura dello spettacolo, dello sport, del turismo etc… oppure relegata dentro il palinsesto di un’emittente televisiva, in una fascia oraria, di solito penalizzante. E poi via con i sottoprodotti, la cultura dell’opera lirica diversamente definita da quella dello spettacolo dal vivo.
Ancora si discetta stancamente della differenza tra cultura alta e cultura bassa, dell’esistenza o meno di una cultura popolare.
C’è poi il culturismo o cultura fisica dove il corpo è sottoposto a uno stress costante per aumentarne le prestazioni in termini di massa muscolare. Un corpo specializzato. Creando specializzazioni scientifiche che si occupano del comparto fegato piuttosto che di quello esofageo. E che hanno perso consapevolezza della unitarietà e complessità che il corpo umano possiede e manifesta.

Questa parcellizzazione della parola “cultura” rispecchia una società delle merci e del consumo, dove ogni oggetto può essere scomposto e spezzettato in modo da avere un suo comparto economico dove può essere valutato in termini di offerta e domanda. Si è perso il linguaggio per poter farsi carico della multiformità dell’esistente, e della sua complessità.

La cultura è la fucina ove si dovrebbe impastare e apprendere questo linguaggio, anzi è l’insieme dei linguaggi che formano una società. Avviene e cresce cultura quando il cittadino, non più consumatore, è capace di stare in ascolto. Con curiosità e stupore. Capace di ascoltare il sapere di un idraulico con lo stesso entusiasmo conoscitivo con cui può ascoltare il sapere di un filosofo, ascoltare le diversità di esperienze, per nutrirsene e farle proprie, diversità geografiche, etniche, religiose. Ascoltare è l’inizio di un processo culturale semplice, alla portata di tutti, è da lì che poi si passa al dialogo, al racconto, allo scambio.

Ma per far crescere ascolto e dialogo servono luoghi, spazi e tempi ove condividere le esperienze. La cultura è coltivazione di dialoghi, inseminazione dialettica, discorso, confronto, e permea o dovrebbe permeare tutti gli ambiti della conoscenza del sapere ma anche del sentire, dall’indagine del reale all’investigazione immaginifica.
Le forme discorsive della cultura sono alla base di un’educazione che si propone di valorizzare l’allievo, il bambino, lo studente, come essere vivente complesso e aperto a continue sollecitazioni, scoperte, meraviglie. È la cultura che permette di percepire la bellezza e di rifiutare la volgarità. Non è appannaggio di élite o di specialistiche congreghe. Quando lo diventa quel tipo di cultura serve solo ad acquisire potere attraverso linguaggi specialistici che recintano uno spazio di relazione privilegiata. Una forma di controllo.

Per questo la cultura non può essere appannaggio di un Ministero, quello è solo un altro modo per controllarne gli esiti e delimitarne la portata. Non è la politica a governare la cultura ma l’esatto contrario, il cittadino produttore di cultura è creatore di polis, di comunità, di cittadinanza, a cui è orgoglioso di appartenere e di cui sente responsabilità. E quindi è la cultura a determinare la politica e le sue scelte. L’esatto contrario di quello che accade in queste nostre oligarchie occidentali mascherate da democrazia.

Se tutto questo accade è perché da tempo i linguaggi di una cultura, quelli con cui una società si esprime, e in cui si riconosce, sono stati soppiantati da un unico uniforme linguaggio, quello economico, che tutto misura in termini di resa, costi, profitto. Sradicare questo linguaggio onnicomprensivo e onnivoro è la lotta politica che occorre svolgere in tutti i campi del sapere e del vivere. Così magari un giorno i telegiornali della sera invece di terminare con le quotazioni delle borse potrebbero terminare con la poesia di un poeta, o con una fiaba, o con l’incipit di un romanzo.

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Educazione alla percezione https://www.marcobaliani.it/educazione-alla-percezione/ https://www.marcobaliani.it/educazione-alla-percezione/#respond Tue, 09 Feb 2021 15:08:22 +0000 http://www.marcobaliani.it/universo-perso-universo-preso-2/
dal progetto “E Johnny prese il fucile”

Stanotte ho fatto un sogno rivelatore. Mi toglievano la mascherina in una stanza asettica, ospedaliera, e mi davano una stecca rettangolare, di colore blu pallido, lunga una ventina di centimetri, della grandezza di un pastello di cera, ma era di una sostanza più dura. Io la dovevo masticare. Non ero da solo a compiere questa operazione. Nella stecca erano state congelate parole e frasi. Masticandole e rimuovendo la mascella atrofizzata, la bocca impastava di nuovo le parole che però uscivano ancora distorte, non del tutto scongelate, ci voleva del tempo per ritrovarle intere. Nel sogno sentivo la bocca che riacquistava una mobilità interrotta, le parole che uscivano dovevo dirle a un’altra persona che davanti a me si sottoponeva allo stesso sforzo.
Ho pensato che il sogno mi stava raccontando di questo nostro blocco delle emozioni, poiché la parola, la parola parlata è un veicolo primario di emozioni. Come se, a contagio finalmente dissolto, dovessimo riacquistare la capacità di trovarci di fronte a un altro corpo, non separato da noi, a scambiarci discorsi, a dialogare, come ci fosse dato un premio troppo a lungo differito.
 
Su Repubblica Stefania Parmeggiani scrive un lungo articolo sul boom recente dell’ascolto di storie tra podcast, audiolibri etc… una novella età di ritorno della parola ascoltata. Sono contento che l’orecchio torni ad essere protagonista, un senso che la vista onnivora aveva relegato in secondo piano, in fondo tutta la lotta politica del mio teatro è sempre stata quella di spostare gli occhi verso le orecchie, ma senza chiuderli però, e qui sta una non piccola differenza.
La giornalista fa un po’ di confusione, dice che questo ritorno dell’ascolto di parole è una riscoperta dell’oralità narrante. No, mi dispiace, non è così, l’oralità ha una forma di comunicazione e di ascolto percettivo del tutto diverso da un audiolibro. L’oralità per esistere ha bisogno di un corpo, necessita di mani, volto, mimesi, movimento. La parola si fa visibile attraverso un corpo che la agita nello spazio e nel tempo. Quando viene a mancare il corpo, vengono dette lo stesso parole ma come senza supporto, resta la voce con tutte le sue sfumature e bellezze, ne so qualcosa avendo dato voce a molti autori in diversi audiolibri, una materia affascinante che però non è oralità, è lettura.

Anche quelli che si definiscono narratori di storie, la maggior parte non racconta oralmente, ma interpreta un testo precedentemente scritto, si sente lontano un miglio che dietro quella narrazione c’è ancora la sempiterna scrittura. L’attore cerca di rendere orale il racconto scritto, ma non lo ha creato attraverso un processo di avvicinamento alla fusione tra corpo e voce, siamo ancora dentro la tradizione  del testo teatrale che viene interpretato anche se il testo scritto è un racconto.

… Ripetere per l’individuo orale non significa dire le medesime parole né conservare il medesimo ordine degli eventi e quindi nulla distingue il ripetere dal comporre e dal creare…”
da L’invenzione del romanzo di Rosamaria Locatelli
 
La compressione della parola dentro un supporto rigido elimina la variabilità e l’imprendibilità del corpo vivente, lo stesso meccanismo accade con le riprese video dove il corpo c’è ma è fissato una volta per sempre, è stato già selezionato dal montaggio, vagliato, tagliato e deciso come deve apparire in quell’inscatolamento della vita che è lo schermo, dove la riduzione del mondo è a scala sempre più ridotta.
Come nel mio sogno dovevo imparare di nuovo a parlare dal vivo a persone viventi, forse bisognerebbe creare dei corsi di educazione alla percezione allargata e multiforme del mondo, a uno sguardo ancora capace di accogliere orizzonti complessi e non solo piccole porzioni selezionate, capace di stupirsi della varietà, del piccolo, del dettaglio, e allo stesso tempo del grande, del maestoso. Lo sguardo umano è capace di passare per molte fasi di “montaggio” automaticamente, può zoomare o dettagliare, fare panoramiche, percepire il passaggio di uno stormo di tordi ma non è mai solo sguardo, mentre i tordi passano, al contempo sta cogliendo un frutto, ha male a un ginocchio, sente già in bocca il sapore del morso ancora non dato e magari in tutta questa multiformità di esperienze sta dialogando con un’altra persona, parlando dell’ultimo romanzo letto. Questa complessità è stata via via negata, ridotta, controllata, una parvenza di vita trasferita su supporti sempre più piccoli. La riduzione è sempre più marcata, il restringimento dell’agire può divenire una facile abitudine, una costante pericolosa, a tutto vantaggio di regimi, non necessariamente dittatoriali, che così possono avere un controllo progressivo delle emozioni, guidarle, dirigerle, soddisfarle.

Sembra fantascienza? No, sta già accadendo, solo che nessuno se ne accorge. E non ci sono ribelli sotterranei organizzati che tentano di risvegliare i corpi immersi nel sonno, alla Matrix. Bisognerebbe pensarci per tempo, formare dei guerriglieri della percezione: intanto magari autoeducandoci al risveglio stupefatto per il mondo che ci circonda.

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Universo perso, universo preso https://www.marcobaliani.it/universo-perso-universo-preso/ https://www.marcobaliani.it/universo-perso-universo-preso/#respond Fri, 15 Jan 2021 08:03:45 +0000 http://www.marcobaliani.it/auguri-2021-2/

Vaso di Pronomos, 400 a.C. circa

Questo tempo incerto e inconsistente, dove tutti aspettano Godot, illudendosi su chissà quale ritorno alla normalità, cioè ad un ordinato rientro nella Norma che tranquillizzi coscienze e portafogli, non spinge certo ad avventure spirituali, a pensare in altre forme il futuro prossimo. Anzi, tutte le comunicazioni quotidiane che si sovraffollano sui nostri piccoli e grandi schermi stanno lì a misurare solo quanto abbiamo perso del mondo di prima e come diavolo fare per recuperarlo.
Ci sono giorni in cui il mio avvilimento è totale, in cui mi sembra di vivere in una dimensione surreale dove ciò che conta sono le piste da sci o i ristoranti, mentre le pubblicità continuano imperterrite a proporre l’ultimo modello dell’auto che ci renderà liberi e forti, mentre seicento persone crepano ogni giorno a due passi da me, compresi carissimi amici. Ma restare avvinti da questa nebulosa insulsa, mentre nanerottoli politici cercano solo di mettere le mani sui miliardi del prossimo Recovery Fund inventando crisi di governo, pur di apparire sotto i riflettori, significherebbe dargliela vinta, accettare la sconfitta, e supplicare solo che arrivino ristori o prebende consolatorie.

Se, invece, con fatica, riesco a non farmi deprimere da quello che vedo e sento, potrei forse riuscire a far tesoro del percorso accidentato che si sta attraversando, non vedendolo solo come inciampo o insofferente ostacolo, ma come un’occasione unica per poter immaginare un teatro diverso per il dopo catastrofe. E forse anche un modo di vivere diverso. Per esempio: le scuole di teatro si ostinano a pensare l’attore come interprete. L’attore si misura soltanto con la sua capacità di interpretare un personaggio, un ruolo. Con tutte le tecniche di sostegno che lo definiscono.
In questo modo si dà per scontato un teatro fatto di ruoli specializzati (regista, scenografo…). Questa divisone di ruoli è quella che ancora fonda gran parte delle produzioni teatrali. L’attore, dopo essere riuscito a farsi scritturare per una produzione, attende la guida del regista, la sua visione del testo (il testo è quasi sempre un testo scritto a cui il regista applica la sua chiave di regia per allestirlo).

Io immagino invece una figura di attore in primo luogo come artista, cioè con una capacità di usare linguaggi che non si fermano alla pura interpretazione attorale. Il mondo che uscirà dopo la pandemia sarà più ricco di contraddizioni, più complesso, più faticoso e difficile e il teatro non può pretendere di contenere questa gamma di variabili dentro un’unica riduzione scenica, meno che mai dentro le unità di spazio tempo e luogo. Se non aprendosi ad altre forme, a linguaggi capaci di affondare il dito nelle piaghe sociali, spietatamente. Servono attori capaci di stare dentro un processo creativo, padroneggiandone gli strumenti, attori vicini ai mondi delle arti visive, che sappiano usare strumenti e tecnologie digitali, che abbiano praticato la performance, che conoscano la storia dell’arte, la filosofia, le scienze. Che sappiano usare le mani, costruire manufatti, proporre materia. Attori artisti capaci di autorialità, cresciuti attraverso una formazione orizzontale, non gerarchica né verticistica, dove la capacità interpretativa non è l’unico fulcro del percorso, pur essendo praticata allo stesso modo della fisicità e del corpo. Senza specializzazioni. Basta con danzatori che non sanno parlare, o attori che non sanno muoversi o che non sanno come far parlare una marionetta. Attori artisti che, a monte, si dedichino a un teatro che ancora non c’è, un teatro da usare e non solo da contemplare, che abbia una funzione aperta nei confronti del mondo che lo circonda, capace di dialogare anche crudelmente col sociale, che lo frequenti, che si sporchi mani e cervello nel toccare la vita della gente, ma non per produrre un vetusto teatro civile in microdrammi chiusi da serie televisiva, ma per far volare gli animi, spostando e spodestando i recinti della realtà e della norma.

Infine una formazione attorale dove non vige la competizione esasperata tra gli allievi, sul modello X-Factor, o sulle tante competizioni televisive in cerca di talenti. Un attore che vada in senso contrario, che formi coralità, organismi collettivi assai più capaci del singolo di affrontare le sfide drammatiche che ci attendono, anche in termini economici.

Questi pensieri sono pura utopia, per ora. Ma lo scossone del coronavirus non può non modificare il modo di produrre, non solo in teatro. Occorre muoversi fin da ora in direzioni inaspettate, rivoluzionare i ruoli, modificare gli statuti, immaginare drammaturgie e situazioni produttive diverse, osare, senza aver paura di perdere chissà che.
Universo perso, universo preso.

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Auguri 2021 https://www.marcobaliani.it/auguri-2021/ https://www.marcobaliani.it/auguri-2021/#respond Thu, 31 Dec 2020 07:10:24 +0000 http://www.marcobaliani.it/intrattienimi-interattivandomi-2/

Guardate questa foto. Questo ulivo ha deciso di nascere nel posto meno facile, dentro una pietra. All’inizio si sarà sentito protetto, la pioggia avrà lasciato nell’incavo una frescura utile durante i siccitosi mesi estivi, ma poi, col tempo questo nido si è rivelato una trappola, la gabbia di pietra gli impedisce di svilupparsi. Ma mi sbagliavo. Guardando da vicino, nella seconda foto si può vedere che la pietra ha una fenditura, si sta spaccando. La forza della pianta, la sua paziente resistenza ha fatto sì che le mura della gabbia venissero abbattute. Penso che, una volta caduto quel frammento di pietra, mi sono accertato e toccandolo lo sento traballare, la pianta non farà che espandersi ancora di più facendo crollare il resto delle pietre.

Parto allora da questo per immaginare degli auguri per tutti noi che non siano la solita tiritera dell’anno nuovo che arriva. Tra l’altro l’aggettivo “nuovo” andrebbe dimenticato fino a che non sarà possibile davvero riappropriarsene, perché ormai è un’abusata modalità con cui viene presentata qualsiasi merce, comprese le frasi fatte della politica. Il nuovo anno non sarà affatto nuovo, come non lo sono mai stati neppure gli altri, la vita non va avanti per continue sorprendenti novità ma, l’ulivo insegna, per testarda forza resistente, l’anno cambia vestito solo se sapremo cambiarglielo noi.

Quello che l’ulivo ha messo in atto non è una resilienza, altro termine abusato, per dire che basta essere pazienti, aspettare che tutto passi e prima o poi si tornerà alla strombazzata normalità. Anche questo non accadrà, occorrerà inventarsi un’altra normalità, premunirsi per una duratura resistenza, resistere, con pazienza certo, ma resistere per cercare un cambiamento, e per ottenerlo, abbattendo le gabbie che ci circondano, ognuno ha le sue, e spesso sono gabbie costruite da noi stessi.
Allora l’augurio è darsi da fare per individuarle e cominciare con l’anno che arriva a forzare la speranza verso una mutazione, di noi, del mondo, degli altri intorno a noi. Auguro a tutti noi di dedicarsi a irrobustire, nutrire e far crescere il sistema immunitario di una speranza resistente. Anche una prigione di pietre può essere abbattuta.

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Intrattienimi interattivandomi https://www.marcobaliani.it/intrattienimi-interattivandomi/ https://www.marcobaliani.it/intrattienimi-interattivandomi/#respond Thu, 31 Dec 2020 07:04:27 +0000 http://www.marcobaliani.it/esperienze-che-stiamo-perdendo-2/ RIFLESSIONI SUL TEATRO / 3

Il teatro Greco di Siracusa

In questo periodo di attentato all’umanità intera, i giorni trascorrono tra incertezze e inquietudini, mi sento smarrito: quella che è stata la mia vita fino a questo momento ne esce stravolta e non c’è alcuna garanzia che in futuro possa dispiegarsi nuovamente, di sicuro non più con le stesse modalità di prima. Questo non mi spaventa, se potesse cominciare a manifestarsi, costringerebbe a misurarsi col nuovo, con l’insolito, con il non prevedibile.
È l’attesa a logorarmi. Aspettando Godot. Per cercare un disperato senso in questo tempo dell’assurdo, che misura tutta la fragilità del mio essere umano dentro questa altrettanto fragile società occidentale, provo a riflettere senza remore sulla materia che ha animato tutta la mia lunga esistenza, il teatro e i suoi territori limitrofi. Questa volta provo a esplorare una tendenza emersa da un po’ di tempo e che ha a che fare con la progressiva “scomparsa del pubblico” come scrive in un bell’articolo su Doppiozero Vanni Codeluppi.

Nel mio ultimo spettacolo Una notte sbagliata, verso la fine, quando ormai l’oscurità “sbagliata” di quella notte è stata sviscerata ma non risolta, accade uno straniamento forzato, vengo in avanti in proscenio con un microfono in mano, le luci perdono ogni valenza teatrale, si accende in parte la sala e io chiedo al microfono se qualcuno vuole farmi una domanda. Restano tutti spiazzati, finora sono stati dentro un mood preciso pur se percettivamente scombinato e diversificato e d’improvviso c’è una “caduta nell’ora” come diceva Bloch. Di colpo il tempo è tornato quello degli orologi e degli smartphone. Ma ecco che una domanda arriva davvero dalla parte del pubblico, molti si voltano per individuare chi è che ha parlato, arriva un’altra domanda e un’altra ancora, solo che sono domande già registrate, ci sono delle casse dietro che rimandano le voci come se queste fossero in mezzo al pubblico. Io cerco con lo sguardo l’interlocutore, alla terza domanda il pubblico ha ormai capito il gioco ma non sorride dato che domande e risposte hanno a che fare col cuore stesso di quello che hanno percepito finora, si parla del capro espiatorio e della violenza su una vittima inerme.
Questa falsa interruzione e finto coinvolgimento mi permette di elaborare una riflessione non scontata e di lasciare gli spettatori con un ulteriore grado di inquietudine. Ma c’è anche un altro motivo che mi spinge a questa soluzione, più nascosto e che gli spettatori non colgono, non tutti almeno, é un mio modo ironico e disincantato di fare il verso a quel teatro sempre più diffuso ultimamente, che si fonda sull’interattività con gli spettatori.

Con diverse modalità e soluzioni, questo teatro chiede in sostanza agli spettatori di non essere solo ricettivi ma di agire, intervenire, scegliere, impersonare, essere presenti scenicamente. A volte alzando una mano per rispondere a un questionario su possibili opzioni sceniche da prendere, altre volte con dispositivi elettronici manuali che vengono prima distribuiti, a volte sollevando fogli con risposte scritte, oppure ancora si viene intervistati, coinvolti, in un tripudio partecipativo che rimanda alla condivisione da social, al coinvolgimento appariscente e onnivoro. Gli attori si ritirano dalla scena, spesso di loro resta solo una voce registrata che impartisce ordini agli spettatori chiedendo loro di agire come improvvisati attori. Al di là di qualche fortunata prestazione, la maggior parte di questo teatro mi sembra che rincorra i tempi e cerchi di adattarsi ai linguaggi comunicativi attraverso cui il presente sembra manifestarsi, oppure ancora è decisamente affascinato dalla possibilità di una condivisione partecipativa al massimo livello. Ma il più delle volte è un adattamento o un’imitazione che né interroga né critica né ingaggia una dialettica con tali linguaggi, non costruisce una drammaturgia capace di usare quei codici piegandoli a uno scenario nuovo, non prevedibile e non omologabile, fondante insomma una diversità o una peculiarità.

Mi sembra in sostanza un teatro che abdica al suo divenire drammaturgia, preferendo un’interattività fittizia, come di fatto è tutta l’interattività promossa dai social o dalle emittenti televisive, che illude sempre una partecipazione di fatto inesistente, una forma furba e allettante di intrattenimento, un modo per solleticare la componente narcisista del pubblico, già abbondantemente solleticata e titillata in tal senso dal profluvio di proposte che lo inondano quotidianamente, alla ricerca disperata di un senso, nell’apparire, nel voler essere, almeno per un selfie, protagonisti.

La pratica del coinvolgimento dello spettatore è vecchia come il mondo, il teatro di strada l’ha sempre praticata, appena il clown vede che sì è formato un bel cerchio di curiosi ecco che invita un malcapitato spettatore a entrare nel cerchio, e lo fa agire buffonescamente, dirigendolo però sapientemente, portandolo esattamente dove lui vuole, e il poverino, impacciato, più cerca di essere all’altezza, più diviene oggetto delle risa degli astanti e delle intemperanze cialtronesche del conduttore. Lo stesso accadeva e accade nel circo, nel vaudeville, nel teatro di varietà, ma sono esempi di falsa complicità del tutto funzionali ai risultati che si vuole raggiungere, producendo a volte invenzioni teatrali notevoli.

Nel teatro interattivo invece si alimenta nello spettatore la sua disposizione compulsiva, da telequiz, o da giurato di un festival canoro, gli si chiede una decisione su possibili direzioni da prendere per poi o realizzarle avendole dunque già previste, oppure lasciandole cadere, a seconda delle maggioranze numeriche nelle risposte, così che per un momento lo spettatore si senta appagato nel suo protagonismo fittizio. Alla fine ciò che avviene realmente è una afasia della scena, una drammaturgia per niente anarchica né tanto meno performativa.

Quando anni fa Marina Abramovic si metteva nuda dietro un tavolo su cui erano posati svariati oggetti di cui il visitatore poteva far uso direttamente sul suo corpo, si esponeva al rischio mortale di essere nelle mani del pubblico, quella era una scelta davvero interattiva, senza rete e senza soluzioni né seguiti possibili. Nelle foto si vede il suo corpo colorato da pastelli, da colori, segnato da tagli, da ferite, spruzzato da getti di acqua o di altri liquidi, un corpo martoriato dalla improvvisa autoralità concessa agli spettatori a cui lei si concedeva, indifesa, fomentando il latente sadismo e il senso di potere di chi improvvisamente ha davvero a disposizione il corpo di un altro, e per di più di una donna. Nulla di questo rischio appare nella odierna interattività teatrale. E quindi è del tutto inutile. Meglio sottoporsi a quell’altro rischio, che è il senso stesso dell’essere in scena, quello di non essere ascoltati, o rifiutati, oppure amati, compatiti, sottoposti al giudizio, alla coscienza, alla emotività dello spettatore, giocandosi il tutto per tutto in quella partita di pura relazione. Preferisco rischiare la sconfitta scenica che far finta che non sia io a sceglierla o a eleggerla .

Nel rischio della sconfitta c’è la misura della morte, chè è questa la vera sfida, morte della scena, caduta, perdita, impossibilità di durare. Se il teatro interattivo avesse il coraggio di una performatività di questo tipo sarebbe interessante e forse costruirebbe qualcosa di ancora non visto. Altrimenti è solo un debole tentativo di strizzare l’occhio ai social e al loro modo di comunicare. D’altra parte la ricerca di “nuovi linguaggi” fa parte da sempre della tensione che accompagna la ricerca teatrale. A metà degli anni Ottanta entrarono in scena i supporti video, gli schermi, le telecamere sul palco, ma pochissimi riuscirono a far diventare questa invasione una sostanza drammaturgica realmente innovativa.

Oggi c’è una notevole e assai più ampia varietà di supporti tecnologici, dal suono alle luci, ai microfoni, al mapping, alle gopro, alle microcamere etc… e la sfida però resta la stessa, come riuscire a far interferire questi mezzi, questi supporti che sono anche portatori di linguaggi, col corpo dell’attore, con la sua dimensione del qui ed ora, senza azzannarne le prestazioni, senza disincagliarlo dalla scena ma al contrario aggiungendo un surplus di valore al suo farsi azione? È questa la domanda da farsi e spero che molti stiano cercando di sperimentare le potenzialità che si aprono. A maggior ragione adesso che questo virus sta mettendo in ginocchio non solo l’economia del mondo occidentale ma gli stessi presupposti su cui quell’economia si fondava. Si apre dunque per il teatro una sfida enorme, una necessaria drammaturgia capace di essere dentro ai conflitti che si stanno aprendo.

Ricorrere alla sola modalità interattiva è misera cosa, facile scappatoia, per animare una drammaturgia asfittica, che rinuncia a rischiare, senza un disegno da poter davvero frantumare. Quando si colloca lo spettatore davanti ad un possibile crocicchio di strade da scegliere bisognerebbe sempre ricordarsi del trivio più famoso della storia teatrale, quello dell’incontro tra Edipo e Laio. Se lo spettatore Edipo avesse scelto di far passare il carro di Laio, gli eventi successivi non sarebbero mai diventati memorabili. Solo scegliendo la strada dello scontro la tragedia è potuta passare alla storia. Ma Sofocle non avrebbe mai permesso che a decidere fossero gli spettatori del teatro ateniese, loro erano lì per vedere cosa decideva Edipo e soffrire della sua tracotanza e della sua perdizione.

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Esperienze che stiamo perdendo https://www.marcobaliani.it/esperienze-che-stiamo-perdendo/ https://www.marcobaliani.it/esperienze-che-stiamo-perdendo/#respond Sat, 05 Dec 2020 06:44:38 +0000 http://www.marcobaliani.it/?p=3272 RIFLESSIONI SUL TEATRO / 2

Il teatro di Epidauro, Grecia

Il termine streaming o flusso multimediale nel caso delle telecomunicazioni identifica un flusso di dati audio/video trasmessi da una sorgente a una o più destinazioni tramite una
rete telematica. 

Questa la definizione che ne dà Wikipedia. Lo streaming in diretta non è altro che la trasmissione televisiva di un evento che sta accadendo in quello stesso momento ma chi lo vede sullo schermo non si trova però nello stesso spazio.

Qualche giorno fa Rai 5 ha mandato in onda un mio spettacolo di qualche anno fa, Giocando con Orlando, in cui ero in scena insieme a Stefano Accorsi. Lo spettacolo fu ripreso con tre telecamere durante una replica al teatro Ambra Jovinelli di Roma. Non fu mandato in diretta ma in differita qualche giorno dopo aver realizzato il montaggio, quindi in quel caso non fu una diretta streaming. Ma mettiamo il caso che invece lo avessero messo in rete quella sera stessa, sarebbe stata una diretta streaming a tutti gli effetti. Magari la Rai investisse per realizzare ogni anno le riprese, più professionalmente possibili, di spettacoli teatrali che durante la stagione abbiano avuto riscontri di pubblico o per la particolare ricerca di linguaggi. Purtroppo questo non accade più da tempo, le reti culturali si sono impoverite, relegate in ruoli sempre più marginali, venendo così meno al compito di emittenti pubbliche.

Poter rivedere anni dopo uno spettacolo teatrale è un indubbio piacere sia per chi era stato presente in sala durante le repliche sia per chi ne ha magari sentito parlare e non ha potuto vederlo in scena, ma è anche una forma di valorizzazione del patrimonio culturale del paese, oltrechè svolgere un compito di memoria storica per le generazioni future.
Ma queste riprese televisive non sostituiscono lo spettacolo dal vivo, lo riprendono dopo che lo spettacolo ha già avuto una sua vita teatrale con la presenza fisica degli spettatori. E magari dopo le riprese lo spettacolo continuerà a replicarsi (Giocando con Orlando ha girato dopo quelle riprese per ancora due anni).

Quello contro cui mi batto e di cui ho scritto precedentemente è l’uso dello streaming in diretta come sostituzione di fatto dello spettacolo in presenza, cosa che sta avvenendo e dilagando ormai senza freni. Non voglio però ripetermi, era solo per fare chiarezza su quanti confondono le diverse forme delle riprese televisive e i diversi esiti. Capisco che molti artisti attori danzatori attrici pur di continuare a lavorare cerchino un appiglio con le riprese in streaming, lo stesso avviene per i produttori, che trovano così modo di tenere ancora in vita gli spazi teatrali. Va bene, basta essere consapevoli che così si subisce un ricatto, per esistere e sopravvivere anche se precariamente si accetta di svendere l’anima allo streaming di turno.

La conseguenza è palese: l’altro ieri nel suo lungo discorso televisivo il presidente del consiglio Conte ha nominato tutti, ma proprio tutti, dalle palestre agli impianti sciistici ai tabaccai, ma mai una parola sul teatro, come se non esistesse, neppure come settore economicamente produttivo. Ma certo tanto pagando magari un biglietto simbolico il teatro lo si può sempre vedere sullo schermo.
É una deriva pericolosa che può incidere sul modo di percepire la realtà per il futuro prossimo. Esiste un ministro della Cultura? Che batta un colpo, che ci metta la faccia, che se ne esca con uno straccio di programma. Possibile che non comprenda che la cultura è quella che fomenta speranza nelle persone?

Altrimenti ci si abituerà a delegare il nostro sguardo alle varie telecamere che riprendono il mondo. Quando assisto ad uno spettacolo teatrale ripreso in streaming io vedo quello che operatori registi e montatori hanno deciso di farmi vedere, non posso mica dislocare lo sguardo altrove nello spazio scenico, perché quello che ho di fronte è uno spazio piatto bidimensionale, senza profondità e senza volumi. Ma soprattutto senza odori, senza fremiti, senza corpi accanto al mio che mi trasmettano emozioni e sensazioni, senza possibilità di decidere da cosa voglio essere attratto. Per quanto le riprese del mio spettacolo fossero state realizzate con cura e con intelligenza, mancava tutto quello che sullo schermo non c’era. Eravamo solo in due in scena ma le camere seguivano quasi sempre l’attore che in quel momento stava parlando, giusto da un punto di vista strettamente comunicativo, efficientistico, ma io spettatore in teatro mentre quell’attore parla vengo attratto da quello che l’altro attore sta facendo senza parlare, e posso appuntare la mia attenzione sui suoi movimenti mentre nello stesso tempo vedo-ascolto il parlante, fondendo in un unico percepire emotività e discernimento. Quello che voglio dire è che l’esperienza dello sguardo teatrale dello spettatore è una esperienza ricchissima e non omologabile a un solo punto idi vista. Queste esperienze sono quelle che stiamo perdendo. Tutto ciò è evidente metafora di quello che stiamo perdendo ogni giorno nelle nostre relazioni-spostamenti-sguardi. Il teatro è davvero specchio della realtà, da sempre, ciò che perdiamo nell’atto teatrale senza la nostra compresenza dal vivo si rispecchia in ciò che perdiamo in ogni istante di questa vita nostra improvvisamente tanto impoverita.

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Se il teatro scorre solo su uno schermo https://www.marcobaliani.it/se-il-teatro-scorre-solo-su-uno-schermo/ https://www.marcobaliani.it/se-il-teatro-scorre-solo-su-uno-schermo/#respond Sat, 05 Dec 2020 06:31:39 +0000 http://www.marcobaliani.it/?p=3261 RIFLESSIONI SUL TEATRO / 1

il Teatro Andromeda a Santo Stefano Quisquina

Teatro in streaming, teatro virtuale, teatro digitale: è in corso una gara di invenzioni linguistiche per trasformare l’evento teatrale dello spettacolo dal vivo in una carrellata visiva da usufruire a distanza, standosene in casa davanti ad uno schermo. Organizzatori, produttori, ma anche molti attori e attrici si stano adeguando al trend, alcuni con inaspettato entusiasmo. Pur di apparire, pur di non scomparire, l’arte teatrale è disposta a rinunciare all’incontro e alla relazione con i corpi degli spettatori in cambio di una transitoria, poco remunerata, ma allettante presenza estemporanea, strizzando l’occhio a quel che già avviene da tempo sui social.

Non sono mai stato contrario all’uso di tecnologie in teatro, anzi, usate con sapienza i linguaggi elettronici possono valorizzare e trasformare la drammaturgia inventando nuove mappe. Ma pensare che una ripresa video, magari in diretta, possa restituire la complessità percettiva dell’atto teatrale è un’assurdità, un palliativo che annulla relazione, incontro, empatia, dialettica, contrasto e catarsi dello spazio scenico, spazio che racchiude un tempo unico e irripetibile, dove le direzioni dello sguardo e del sentire sono molteplici, dove ci si può distrarre, appuntarsi su elementi secondari, lasciarsi affascinare o produrre riflessioni. Dove soprattutto non si è mai soli, chè i corpi degli altri trasmettono vibrazioni, frenesie, risate, respiri. I corpi commentano l’azione e trasmettono sensazioni che scorrono come onde, a cui aggregarsi o contro cui differenziarsi. L’incontro teatrale è incontro tra esseri umani che recitano quel gioco millenario per potersi rispecchiare. A volte, spesso, rompendo addirittura lo specchio.

La tristezza di queste scorciatoie, per attestare un’esistenza di fatto cancellata dalla pandemia, per non perdere i già miseri finanziamenti statali, mentre il ministro Franceschini immagina progetti da milioni per un teatro digitale non meglio specificato, tutto questo arrancare con videocamere, microfoni e schermi è perfettamente in linea con quanto sta succedendo anche in altri ambiti della società. La pur necessaria protezione, il timore del contagio, il bisogno di sicurezza, in soldoni la paura della morte, trasforma il disperato ma vitale impeto narrativo di Sherazade in un cortometraggio omologato a standard simili per tutti. Non solo in teatro. Sui quotidiani è un continuo tono trionfalistico sulle sorti magnifiche e progressive dello smartworking, queste parole inglesi che fanno tanto trend. Il lavoro diventa una faccenda solipsistica, chiusi in casa, senza relazioni neanche lì. Senza confronti e quindi senza contrasti né ribellioni. Il controllo aumenta, controllo dei corpi e degli animi, facilmente ricattabili, insicuri, alla mercè di un sistema che trasforma ogni atto in merce. A scuola si spinge per l’insegnamento a distanza, una catastrofe dal punto di vista pedagogico, annullamento del corpo insegnante, corpi che insegnano non solo con la voce ma con i gesti, le espressioni del volto, le voci, la prossemica e tutto un complesso di segni che possono trasformare l’atto della trasmissione del sapere in una maestria fascinosa e memorabile per il futuro dell’allievo. A questa progressiva perdita di contatti si aggiungono idee altrettanto pericolose come quelle della democrazia in diretta, del voto cittadino espresso su piattaforme digitali, una strada per evitare lungaggini parlamentari, per evitare proprio la necessità di un parlamento, luogo ove appunto si parla in presenza, dal vivo. Il coronavirus ha accelerato questi processi di dislocamento e isolamento che erano già in corso da decenni. Non sono uno di quei negazionisti o peggio complottisti che vedono dietro questo dispiegarsi di norme e misure di sicurezza la mano di chissà quale occulto potere. Il virus esiste e fa davvero paura, ma a me fa più paura l’accondiscendenza generalizzata a questo distanziarsi progressivo dei corpi e che accada in teatro è per me segno che l’allarme va gridato con più forza.

Da tempo il sistema capitalistico delle merci si è avviato verso una “forma dittatoriale” dei consumi, riducendo via via lo spazio e il tempo per le scelte e le diversificazioni. In cambio di velocità, comodità e sicurezza, Amazon o Google impongono mondialmente un orientamento preciso, non servono più intermediari, passaggi, relazioni, le scelte sono già direzionate. La foglia di fico del capitalismo, la Modernità, che assicurava l’equazione più mercato uguale più libertà e democrazia, è caduta da tempo ormai nel perenne autunno delle nostre esistenze. Al mercato servono decisioni rapide, governi accondiscendenti, meno rappresentanze possibili, meno democrazia in sostanza, quella cosa strana dove per arrivare a dire un sì o un no serve un tempo di discussione e di confronto, meglio fare affari coi dittatori veri, vedi la Cina.

Il progressivo monadismo di quello che un tempo era il cittadino immerso in una comunità complessa e differenziata, sta accelerando la figura di un consumatore isolato, posto a distanza di sicurezza, chiuso in una casa autarchica, parlante, robotica, funzionale, dove tutto avviene on line, anche gli appuntamenti affettivi. Il pericolo è quello dell’adattamento e dell’acquiescenza. Il teatro, a forza di vederlo scorrere solo su uno schermo, quando si tornerà a respirare forse senza mascherine, lo spettatore lo vedrà come un’appendice al modello televisivo, si sarà assuefatto a quel modo di percepirlo. Nel tempo, il teatro apparirà come una cosa mitica, lontana, ammantata di una malia ormai persa ma neanche più cercata. Una nostalgia come tante, come quella della democrazia, di cui liberarsi in fretta all’inseguimento del “nuovo” che avanza.

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