LA PELLE

di Curzio Malaparte

La pelle Loca

 

 

adattamento e regia Marco Baliani

con Marco Baliani, Elisa Cuppini, Marion D’Amburgo, Alessandra Fazzino, Maria Maglietta, Simone Martini, Guido Primicile Carafa, Michele Riondino, Giuseppe Sangiorgi, Caterina Simonelli

scene e costumi Marion D’Amburgo

luci Roberto Innocenti

musica Mirto Baliani

regista assistente Barbara Roganti

assistente scenico Lorenzo Martinelli

costumista assistente Marco Baratti

produzione Mercadante Teatro Stabile di Napoli – Teatro Metastasio Stabile della Toscana

 

 

Mettere il dito dove non si dovrebbe, toccare la sostanza nascosta delle cose, l’oscura materia che oscenamente riempie l’involucro, non solo sei corpi composti di carne, ma anche delle anime fatte di sentimenti ed emozioni. Come nei dipinti di Bacon o nelle sculture di Hirst, di colpo l’involucro esterno, La pelle, non protegge più, e appare allora l’indicibile che da sempre lo riempie, la materia vivente, pulsante, incontrollabile, che lo sostanzia. Noi umani dedichiamo tutte le nostre energie per cercare di salvare l’involucro, La pelle. Né potremmo fare altrimenti, poiché il fantoccio che no siamo necessita prima di tutto di una forma. E questa forma è una pelle sottile, fragile, una protezione delicata che si regge e alimenta grazie ai nostri vicendevoli complici sguardi. Sono gli sguardi degli altri a permettere alle nostre forme-involucro di esistere. Questo non riguarda solo noi individui ma anche il nostro gruppo, le nostre tribù, la nostra appartenenza a un corpo più grande, la città, il Paese, a volte la Patria. Questo nostro coesistere ha bisogno altrettanto di una pelle che lo contenga, che lo delimito e lo rafforzi.

In mezzo alla strada, lì davanti a me, giaceva un uomo schiacciato dai cingoli di un carro armato. Vennero altri uomini e si misero a scrostare dalla polvere quel profilo di uomo morto. Adagio adagio sollevarono con la punta delle vanghe i lembi di un tappeto. Era un tappeto di pelle umana e la trama era una sottile armatura ossea, una ragnatela d’ossa schiacciate, pareva un vestito inamidato, una pelle d’uomo inamidata.

Quando il tappeto di pelle umana fu del tutto staccato dalla polvere della strada, uno di quegli uomini lo infilò dalla parte della testa sulla punta di una vanga e con quella bandiera si mosse. Quella pelle umana ciondolava e dondolava nel vento proprio come una bandiera. Quella è la bandiera dell’Europa, quella è la nostra bandiera, della nostra patria, della nostra vera patria. Una bandiera di pelle umana. La nostra vera patria è la nostra pelle.

Ma appena questo nostro guardarci perde forza e sostanza, non appena gli occhi si fanno affamati, o disperati o indifferenti, ecco che tutte le nostre impalcature crollano, non solo il nostro corpo biologico si fa catastrofe ma anche il corpo sociale precipita, e la forma stessa del mondo perde consistenza. È allora che si apre il baratro. La crosta sottile, quella pelle che noi chiamiamo civiltà rivela di colpo tutta l’oscurità ancestrale e viscerale che dall’inizio dei tempi pulsa là sotto e che quel fragile prezioso involucro teneva strenuamente sotto controllo.

Voi non immagine neppure di cosa sia capace un uomo, di quali eroismi e quali infamie sia capace per salvar La pelle, questa schifosa pelle (…)

Una volta si soffrivano la fame, la tortura, i patimenti più terribili, si uccideva e si moriva, si soffriva e si faceva soffrire per salvare l’anima, per salvare la propria anima e quella degli altri. Oggi si soffre e si fa soffrire, si uccide e si muore, si compiono cose meravigliose e orrende non già per salvare la propria anima, ma per salvare la propria pelle, soltanto per la propria pelle, tutto il resto non conta.

 

La Pelle di Curzio Malaparte, per me, parla soprattutto di questo. Non solo, certo. Ma è questo corpo biologico, animale e sociale che l’autore, con un misto di pietas e di ironia disperata, si adopera a scoperchiare e a vivisezionare.

La seconda guerra mondiale lascia al suo passaggio un immenso deposito di rovine. La forma della città si è persa, è stata sventrata, percossa, stuprata, e con essa viene allo scoperto il ventre sociale e individuale che la riempiva.

Con terribile sguardo, mettendo il dito nella piaga, Malaparte riesce a toccare l’indicibile, a mostrarci, denudate, le nuove relazioni umane che da allora, da quella soglia mostruosa che è stata quella guerra – e l’olocausto e i campi di sterminio e le ideologie totalizzanti – hanno dato nuova forma al mondo. Quella che ancora oggi ci plasma. In quegli anni è accaduto, nel pieno della nostra Europa, della nostra cultura, che milioni di esseri umani siano stati ridotti a oggetti, a cose, privati di identità e anima. Malaparte racconta questo passaggio, sceglie la città di Napoli per il suo affresco, perché lì il ventre è più scoperchiato, il trucco non c’è più, il teatro è ormai a cielo aperto. Ma quella città è metafora dell’intera Europa e dell’intero mondo. Si vendono corpi vivi, corpi morti, pezzi di corpo, si vendono bambini e bambine. Tutto può essere ridotto a mercato e merci. Perfino i sentimenti, le più segrete sostanze dell’anima.

(venditore) She’s a Virgin. You can touch. Put your finger inside. Only a finger. Try a bit. Don’t be afraid. She doesn’t bite. She is a vergin. A real virgin.

(narratore) Un negro allungò la mano e provò col dito. La vergine non si mosse, ma fissò il negro con uno sguardo pieno di paura e di odio, tutti erano pallidi tutti erano pallidi di paura e di odio.

 

(Malaparte) Se l’America avesse perso la guerra pensa a quante vergini americane a New York o Chicago aprirebbero le gambe per un dollaro Jimmy Wren. Non dire stupidaggini.

(Malaparte) Preferisco aver perso la guerra, e star seduto su quel letto come quella povera ragazza, piuttosto che andare a ficcare il dito tra le gambe di una vergine per avere il piacere e l’orgoglio di sentirmi vincitore.


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