Una ballata ai tempi dell’Aids
con Michael Mwaura, Wilson Franco, Mohammed Kamau, John Muthama, Nancy Ann Gitau, Peter Wangugi, Paul Kamau, Freshia Wangari, Mary Gachoka, Monicah Mbutu, John Kiarie, Peter Ngige, Daniel Ndichu, Daniel Njoroge, Joseph Muthoka, Evans Oluoch, Nahashon Mbugua
regia Marco Baliani
musiche Mirto Baliani
con la collaborazione straordinaria di Paolo Fresu e Sonia Peana
collaborazione artistiche Maria Maglietta, Alessandra Fazzino, Alberto Pagliarino
responsabile progetto “Ragazzi di strada” John Muiruri
coordinamento e supporto per Armref Kenya Samuel Navutayi, Patricia Kwamboka, Rosemary Kamau, Hemphry Mbugua, Nick Adenya
coordinamento e sopporto per Amref Italia Giuska Ursini, Daniela Cuomo, Renata Torrente, Manuela Accarpio
ufficio stampa Melania Bruno, Olindo Rampin
coordinamento Teatro delle Briciole Alessandra Belledi, Giulia Zaccherini
tecnici Paolo Gamper, Diego Guerzoni, Daniele Patriarca
contributi video Angelo Loy
fotografi Valeria Turrisi, Kamis Ramhadan
Con L’amore buono Marco Baliani porta in scena l’amore degli slum africani: un amore in pericolo, sradicato e dolcissimo. Il metodo partecipativo di Baliani ha costruito uno spettacolo che si bassa sulla vita reale dei ragazzi di strada: guidati dalla musica di Mirto Baliani e di Paolo Fresu, i giovani del “Children in need project” di AMREF raccontano rapporti vissuti troppo in fretta, influenzati dalla fame e dalla violenza, dai pregiudizi sull’Aids e sui preservativi, dalla retorica della campagne di prevenzione e dalla mancanza di riferimenti familiari.
Intrecciando canzoni di strada, danza, clownerie e scene comiche, lo spettacolo restituisce la vita caotica dello slum e la voglia d’amore, il bisogno di costruire un tessuto sociale che le migrazioni dalle campagne alle città hanno spazzato via, e trasmette un messaggio di speranza per decine di migliaia di coetanei in tutto il mondo, i più esposti al contagio dell’Aids.
Pensieri per uno spettacolo
Due anni fa andai a trovare Samuel, uno dei ragazzi del Pinocchio Nero, a casa della madre. Eravamo, con fatica, riusciti a riannodare i rapporti tra i ragazzi vissuti in strada fino a quel momento, e quel che restava delle loro disastrate famiglie. Così ogni tanto facevamo queste visite parentali. La casa era un’unica stanza di latta e fango incastrata nel labirinto di viuzze maleodoranti dello slum. Appeso alla parete c’era un quadretto stinto con una scritta che diceva: “quando la povertà entra dalla porta l’amore scappa dalla finestra”. Si vedeva una figura scheletrica che varcava una soglia e una figura più piccola, vagamente alata, che scavalcava in lontananza una finestra. Il suo sguardo girandosi verso la porta da cui entrava Miseria, era spaventato.
È un amore sempre spaventato quello che vive negli slums di Nairobi. Qui amarsi è difficile, amarsi bene, nutrirsi d’amore, quasi impossibile. Dai racconti di vita dei ragazzi e delle ragazze che fanno parte di questo nuovo progetto teatrale, dalle loro improvvisazioni drammatiche, viene fuori un amore fatto in fretta e furia, dietro la fermata di un autobus, appena scende la notte, per strada. Un amore a cui manca sempre un Tempo per poter crescere e svilupparsi. Dove la vita è pura sopravvivenza, non c’è tempo per far crescere un sentimento e nutrirlo, non ci sono luoghi per coltivare le proprie anime e quella della persona amata, luoghi per corteggiarsi, dove poter essere in intimità. Tempo e spazio appartengono solo alle classi più ricche, ai bianchi, alle nostre società del benessere diffuso. La povertà non produce solo fame e malattie, abbandoni, e vita di strada, impedisce prima di tutto agli esseri umani di manifestare e coltivare la propria umanità. Quando l’atto d’amore è sempre rubato, è facile che esso diventi violento e si nutra solo di violenza, sulle donne, sui propri corpi, sulla propria integrità. Ed è facile allora che il virus dell’Aids trovi campo libero, in corpi senza più difese, in corpi allo sbaraglio. All’inizio doveva essere uno spettacolo sull’Aids, sull’uso del condom, un teatro combattente da far girare soprattutto negli slums, di fronte a spettatori giovani come loro, per raccontare che l’Aids non è una maledizione divina, che la soluzione non è quella di astenersi, come ipocritamente suggeriscono le varie chiese, che far l’amore non è una colpa, che una malattia si può sconfiggere, prevenire e curare, che basta per debellarla un affare di gomma da infilare al posto giusto. Tutto questo è rimasto, è ancora presente, ma non è più il centro dello spettacolo. Fin dai primi incontri ho intuito che al primo posto doveva entrare il loro vissuto, le loro storie, crude, violente, a volte dolcissime, sempre spietate perché vere, quello che davvero accade ogni giorno tra ragazzi e ragazze nelle strade di Nairobi: il loro amore difficile, il loro amarsi spaventato. E che solo avendo il coraggio di parlare, sarebbero potuti divenire portatori di un cambiamento, autorevoli testimoni di una lotta contro il flagello dell’Aids. Non un’unica storia o trama dunque ma una costellazione di racconti, dialoghi, immagini, cucite tra loro da una continua presenza musicale, punteggiata da vere e proprie canzoni. Una mappa musicale che lega le diverse sostanze. Mirto, da Roma, fin dall’inizio ha lavorato a farli diventare una band capace di usare come strumenti i loro stessi corpi, le loro voci, le latte e i bidoni delle loro strade, gli stessi condom gonfiati e suonati a vista. A partire dai testi che ho chiesto loro di scrivere su alcuni temi, sono nate canzoni, che Mirto ha musicato in una miscela di risonanze dove l’hip hop di strada fa da guida nel ritmo.
Poi Alessandra, da Palermo, ha cominciato a muovere le canzoni creando anti-coreografie, corpi che danzando narrano.
Paolo e Sonia, dalla Sardegna, con i loro strumenti, tromba e violino, hanno intrecciato nuovi percorsi, creando altre sostanze sonore.
Alberto, da Torino, mi ha aiutato a clownizzare le scene del condom, perché la grandezza di questo popolo disperato è la sua capacità di ridere, una risata pura, infantile, a denti scoperchiati. Anche così si può combattere l’Aids. Joyce da Nairobi ha poi settimanalmente educato le voci dei ragazzi a riconoscere le note, i timbri, le melodie.
Un’immagine preziosa che porto con me da questo lavoro. La baracca di latta con dentro venti ragazzi e ragazze assorti, in silenzio per ore, alcuni con le cuffie in testa, microfoni appesi, Mirto al suo computer, Paolo e Sonia coi loro strumenti, cavi, casse. In mezzo alla foresta, al caldo, alle zanzare in quell’attenzione preziosa e assorta, in quella baracca di colpo divenuta uno studio di registrazione di altissima qualità musicale, era racchiuso tutto il senso di questo secondo percorso teatrale, lì stava avvenendo una forma di educazione al Tempo, una ricchezza nuova, nutriente che, una volta scoperta, questi ragazzi so che non perderanno più.
Marco Baliani